Da sempre, le diverse specie viventi utilizzano le grotte, le caverne, allo stesso modo. Possiamo affermare che, anticamente, la vita si svolgeva in natura, nei boschi, in campagna; meno frequentemente, però accadeva che l’essere umano abitasse anche all’interno delle grotte, delle forre, e il popolo etrusco ne è un testimone inequivocabile.
La natura è sempre stata la casa,
l’Oikos
delle specie viventi e, quindi, dell’essere umano.
L’unità eco-sistemica cosmica, l’Universi-parte che siamo è natura,
è l’Oikos
(la naturale transmutazione del Tempio).
La natura, le grotte o le caverne sono state investite dal campo istintivo-emozionale dalle sensazioni, dal sentire di molte specie.
È per questo motivo che ogni luogo rappresenta l’elemento che può suscitare simmetrie e risonanze in molti Io-psyché. Nell’inconscio individuale e collettivo, troviamo intere costellazioni di memorie, di cogniti di questo tipo, sia sperimentati direttamente che ereditate dal padre-madre e dagli avi,
il filo blu della conoscenza.
Ogni stato coscienziale, di qualunque tipo è stato proiettato nella natura, nelle grotte, nelle forre: momenti di vita quotidiana, di culto, incontri religiosi, socio-politici, ludici, rituali. Gli esseri umani di quel tempo non potevano non notare un processo che, per la Sigmasofia, è estremamente significativo: di notte, in assenza totale di luce, possiamo inizialmente percepire ad occhi aperti, una continuità di buio assoluto, lo stesso che si vede stando con le palpebre chiuse. Ed è qui il punto: aprendo gli occhi, i ricercatori di quel tempo scoprirono e vissero che il buio percepito interiormente era esattamente identico a quello esterno, lo stesso dell’ambiente, della grotta, evidenziando, così,
la continuità fra dentro e fuori,
fra fuori e dentro, che rende indistinguibile i due bui, un campo unico.
Chi frequenta le grotte profonde o i boschi di notte, senza l’utilizzo di torce, sa di che cosa sto parlando. Ebbene, la magia consisteva nel fatto per cui, pur essendoci assoluta mancanza di luce, dopo un po’ la vista si adattava a quel buio e, in quel gioco di ombre scurissime, si iniziava a vedere forme; poi, come per incanto, pensando a qualche cosa, visualizzandola, la si poteva naturalmente vedere, sia interiormente che esternamente, impressa in quella continuità. Fu così che sperimentarono le ideoplastie, ossia, idee, pensieri, visualizzazioni che possono essere percepiti, nella continuità di buio interiore ed esterno.
Per questo motivo, durante la pratica della Sigmasofia ecologica, i ricercatori in formazione hanno la possibilità di vivere quanto indicato, centinaia e centinaia di volte. Non a caso, lo spazio interiore e buio più che tridimensionale, che si forma quando chiudiamo gli occhi, viene anche denominato grotta. Si tratta proprio di immagini interiori visualizzate, di immagini esterne percepite, o di situazioni vissute che venivano rappresentate sulle pareti o sulla volta della grotta. L’incisione interiore era già presente (la memoria visualizzata), mancava quella esterna ed era proprio quando, sia interiormente che esteriormente, si percepiva lo stesso elemento che quello diventava magico, propiziatorio, confermativo, premonitore. Nei tempi antichi, erano presenti meno contenuti acquisiti, non esistevano gli strati di neocorteccia che abbiamo ora: per questo, il tipo di visualizzazioni era più vicino all’autopoietico innato. È l’origine di incisioni rupestri e di dipinti che troviamo nelle grotte dei diversi continenti.
Tra gli Anangu (Dreamtime australiano), tra le innumerevoli incisioni rupestri non si vedono soltanto figure di animali, immagini di situazioni di vita quotidiana, ma anche raffigurazioni di esseri mostruosi o luminescenti che non possono avere avuto altra origine che la visualizzazione, la memoria interiore.
È questo un livello di profondità della grotta, della coscienza collettiva e successivamente autopoietica innata che il ricercatore in Sigmasofia, in speleologia coscienziale autopoietica tenta di raggiungere. Infatti, ogni volta che scendiamo in grotta, pratichiamo una serie di Autopoiesi olografiche che ci consentono di raggiungere quel livello interiore. La discesa in verticale supera i diversi ostacolatori che s’incontrano durante la progressione, sia interiore che esterna, sia esterna che interiore: un campo unico.
La caverna, la natura, la forra non sono mai uscite dalla storia o dalla preistoria, ma rappresentano uno dei contenuti che vivono nell’inconscio collettivo e autopoietico.
La grotta non è l’archetipo dell’utero materno: può diventarlo, quando il ricercatore che la percorre dentro o all’esterno di sé, incontra quella memoria registrata e la proietta nella grotta stessa. La grotta non rappresenta mai, per definizione, un simbolo pre-definito. Infatti, proprio per questo motivo, nelle cosmogonie di diverse culture si trovano differenti e molteplici significati. Questi sono racchiusi nell’inconscio sotto forma di memorie o costellazioni della coscienza che il ricercatore in Sigmasofia tenta di ritrovare, dando vita a forme di
archeologia coscienziale olistico-autopoietica,
un altro degli elementi che va a viversi in natura, in grotta, nelle forre. Spesso, prima di raggiungere una peculiare grotta o caverna, è necessario superare salti, strapiombi, fiumi, torrenti. In Etruria, è frequente.
Anticamente, la caverna era il luogo in cui si partorivano le idee, i pensieri, le emozioni: la grotta, l’interiorità sono generatori di questo. Per analogia, alcuni popoli vi proiettarono il fatto che anche gli esseri umani, come le idee, possono essere partoriti dalla grotta. E’ un mito che poggia le basi su un dato verificato:
la grotta interiore può partorire stati coscienziali!
Ogni volta che l’Io-psyché entra nella grotta in cui vive, può incontrare le memorie, anche sconosciute, che veicola nelle profondità, di cui è parte. Si tratta di vere e proprie
iniziazioni alla conoscenza dei contenuti delle memorie presenti nell’inconscio.
Scoperto questo, per raggiungere quei luoghi profondi, è necessario superare difese, resistenze, ostacolatori: succede sempre, quando si scende in grotta, si scende in se stessi! Alcuni ricercatori hanno riferito che, per loro, entrare nella grotta, attraversare un buco rappresenta una sorta di ritorno nell’utero. Ma, se non è il ricercatore stesso a riferirlo, perché ha ricordato quel momento, rivivendolo, sperimentando direttamente il
regressum ad uterum,
non è detto che la stessa memoria venga risvegliata sempre (ossia ogni volta che ci si cala in grotta), come centinaia di persone testimoniano.
A volte, uscendo dalla grotta e vedendo il cielo, ai ricercatori con conoscenze psicoanalitiche e/o spirituali accade di verbalizzare che quello è stato
un percorso rispettivamente dall’inconscio al conscio, dal buio alla luce,
sottintendendo un sapere simbolico-reale, religioso-esoterico. Secondo me, si tratta di una proiezione, perché la luce del mondo sensibile che vedono deriva dal fatto che i loro sensi, in grado di percepire dal rosso al viola, la riconoscono, ma non è la luce, il sapere superiore, la rivelazione che lasciano intendere. Il punto è che, per entrare nella fisiologia autopoietica di quella luce, sbagliano direzione: dovrebbero proseguire in profondità nella grotta, in se stessi, e scendere ancora di più. E’ proprio la coscienza delle cellule, la coscienza dell’atomo, che rivela la luce ossia, l’autopoiesi che, proiettivamente, si vuole vedere, uscendo, nella percezione del mondo sensibile.
Specifico meglio.
Soltanto dopo aver raggiunto quel livello di coscienza dell’atomo, della cellula, mantenendolo e applicandolo al sensibile, si può riconoscere che nel sensibile stesso, alla sua essenza, muove quel tipo di luce, di autopoiesi: tutta la manifestazione sensibile è un’aggregazione di atomi, di particelle che, in conseguenza di questo, hanno assunto una morfologia. Voglio comunicare che senza il reale raggiungimento della coscienza dell’atomo, del campo coscienziale olistico-autopoietico, la luce su cui si filosofeggia, diventa soltanto una speculazione intellettuale.
L’esplorazione della grotta è, e può essere, una risalita (ascesi) a se stessi, se la si sa attuare.
Entrando nella natura, nella grotta, nella forra, per molti ricercatori è come entrare negli inferi, perché là si incontrano le paure, le fobie (e se la corda si rompe, e se qualcuno la taglia, e se ci sono serpenti velenosi, e se mi manca ossigeno, potrei anche morire, -da verbalizzazioni-).
Nella profondità delle grotte etrusche, è possibile individuare forme di radioattività. Il radon emette la radiazione che erode e modella il tufo: per questo, i Rasna lo denominavano la pietra che vive ed infatti potevano attuare pratiche divinatorie, vaticini, pratiche magiche, soltanto quando la roccia emetteva radioattività, ossia ciò che veniva definito il potere di Veltha. La magia aveva, come ingrediente di base, l’interazione tra il potere di Veltha e la radiazione-radioattività emessa dal corpo umano (infrarosso, ultravioletti, ecc.). Era soltanto quello il luogo che lo sciamano, il sacerdote o il lucumone, eleggevano a posto sacro, adatto alla pratica di particolari riti.
Di fatto, ho sperimentato che questa interazione tra campi, tra radiazioni, dinamizza il campo Io-somato-autopoietico, rompe cristallizzazioni, identificazioni dell’Io-psyché, innescando processi di rigenerazione, di potenziamento del sistema di difesa immunitario determinando così processi di remissione della patologia-sintomo, di autoguarigione.
Le forze naturali, un terremoto, l’eruzione di un vulcano, una tempesta, esplosioni di gas sotterranei o maremoti, possono essere potenzialmente o effettivamente pericolosi. L’inconscio li ha registrati come eventi, vissuti da noi, da chi ci ha preceduto ed anche da altre memorie, in modo interpretato come negativo: è quel senso di inquietudine e di pericolo che segue sempre i ricercatori, in qualche modo, nel momento in cui entrano in natura, in grotta, in forra.
Per la Sigmasofia, è possibile individuare correlazioni simboliche tra madre, donna e grotta, contenitore, ventre: soltanto ed esclusivamente se il ricercatore incontra quelle memorie nel vissuto, in sé, e se le risveglia e le vive, la grotta diverrà correlazione simbolica tra madre-donna-caverna. In questo, rileviamo elementi da far evolvere in alcuni ricercatori che ritengono che il simbolo abbia dei significati-significanti pre-costituiti.
Altri si muovono in grotta in silenzio, elemento che facilita, amplifica la meditazione o la pratica delle Autopoiesi olosgrafiche.
Andare in natura, in grotta, in forra, attraversare luoghi impervi, inaccessibili, difficili, entrare in tunnel sotterranei, immersi nell’irruenza delle acque dei fiumi all’interno delle forre, rappresenta sempre l’incontro con le risonanze-simmetrie e analogie che l’Io-psyché del ricercatore ha con il luogo esplorato. Si entra, infatti, in un flusso dinamico di reazioni all’evento che s’incontra e che, successivamente, verrà trasmutato in facoltà utili ad attraversare quel luogo, a superare una determinata situazione.
Quindi, la natura, diventa simbolo della propria reazione, della facoltà messa in atto: si diventa partecipatore empatico, attivo, interagente che può incontrare elementi noti e sconosciuti. Solitamente, si ha molto interesse ad incontrare elementi non noti, perché, in tal modo, si tenta di misurare e di far interagire l’Io-psyché con quella situazione nuova, con quel corrispettivo interiore, profondo. Le vie nuove hanno la funzione del labirinto, ossia delle aree dell’inconscio collettivo e autopoietico, ancora da esplorare: le stesse diramazioni di quella forra, di quel percorso, di quella grotta sconosciuta. E’ anche una misura della preparazione tecnica, della facoltà intuitiva che si veicola, di cui si è consapevoli. Ho visto molti ricercatori bloccarsi, talvolta farsi male, quando non riuscivano ad affrontare quell’ostacolo, quel labirinto: superarli è significato liberare, risolvere la paura, la tensione che quella peculiare situazione, interiore o esterna, tratteneva. Molti hanno vissuto aggredior-out, forti, crisi di panico, angoscia che ho dovuto gestire sul luogo, in quel momento (visti i successi, quel particolare trattamento è diventato peculiare per i claustrofobici: per tentare di aiutarli, li accompagno in grotta, fino a che non producono la crisi che, insieme, gestiamo, utilizzando specifiche autopoiesi olografiche).
Nei quindici anni durante i quali ho frequentato assiduamente la natura, ho avuto la possibilità di aiutare molte persone a risolvere problematiche collegate ad angoscia di perdersi, di smarrirsi, di non ritrovare la strada.
Per la Sigmasofia, la profondità è, per così dire, uno spazio fisico, non un concetto, un pensiero, una filosofia, un’analisi ben riuscita. E’ lo sguardo interno, l’Io-psyché che scende e vede, sente, vive il luogo coscienziale che esplora, non che pensa: in questo senso, la verbalizzazione, il pensiero e l’analisi risultano essere meccanismi di fuga dal vissuto diretto. Un conto è dire è bello entrare in forra, in grotta, un altro è farlo. Per questo motivo, nel setting di Sigmasofia, ho eliminato il linguaggio, per cui il ricercatore può comunicare soltanto attraverso il vissuto diretto; lo stesso viene invitato a fare durante l’esperienza in grotta o in forra, dopodiché recupererà il linguaggio per descrivere, se vuole, ciò che ha vissuto.
Agire, vivere è scendere in verticale dentro di sé, esattamente come accade in una forra o in una grotta!
È soltanto scendendo dal neocorticale al sub-corticale che il ricercatore entra nella dimensione onirica, nel sogno, nell’inconscio, motivo per cui, si allena per anni la pratica del sonno-sogno lucido. Con gli orientamenti indicati, in natura, è possibile attivare ormoni che influiscono sui ritmi giorno-notte, veglia-sonno: la melatonina che il cervello produce, ad esempio, entrando di giorno in un luogo buio come la grotta, facilita il raggiungimento del sonno-sogno lucidi, e di altre funzioni. Spesso, alcuni speleologi non sono consapevoli dei processi che si attivano nell’essere umano quando vive la dimensione della grotta.
In Sigmasofia, non utilizzo miti: si vivono, si creano e si attuano significati-significanti reali, senza il bisogno di seguire un registro simbolico pre-determinato, perché durante il setting che propongo, è possibile incontrare direttamente i contenuti che si sono vissuti. Per me, l’espressione sentirsi giù di corda, può evocare sensazioni estatiche, in quanto so che, in quei luoghi, la coscienza dell’atomo, della cellula, è vicina. Se si va oltre il semplicistico
discesus ad inferor,
si entra in dimensioni autopoietiche innate, uno dei segreti che si cela nella profondità della grotta, nel sentirsi giù di corda, di noi stessi, l’Universi-parte che siamo.
Ci caliamo, esploriamo la
profondità della vita, delle cose, di noi stessi:
la natura, la forra, la grotta ce lo permettono! Quando partecipiamo-osserviamo il mondo da quella profondità (la grotta) o da quell’altezza (la montagna), la visione della vita, della relazione con se stessi o con l’altro, cambia.
Per noi, la progressione Io-somato-autopoietica in natura, nella grotta, in forra è sempre sinonimo di esplorazione delle aree sensibili e sovrasensibili, consce e inconsce che non conosciamo: per questo, andarci è sempre sinonimo di auto-trasformazione.
Durante le Autopoiesi della vita e dello stato coscienziale punto morte, praticate anche in occasione degli incontri di Sigmasofia Ecologica, i vissuti si esasperano fino a raggiungere forme di avanguardia, in taluni casi, anche estreme. Per me, i sostantivi avanguardia, estremo, sono
sinonimi di forgiatura Io-somato-autopoietica:
il limite del ricercatore segna il confine da cui agire l’allungamento, l’espansione, l’ampliamento della propria avanguardia. Significa, ad esempio, potenziare i sensi per vivere l’iper-sensibilità, allenare l’Io-psyché, il soma, per raggiungere prestazioni più ampie, preparare l’Io-somatico a vivere processi di fisiologia autopoietica sempre più potenti. E’ un miglioramento continuo, un’indagine continua di se stessi: andare all’avanguardia di se stessi assume il significato di base da cui partire per migliorare, per trovare elementi innovativi, nuovi.
A volte, alcuni ricercatori hanno messo a rischio la vita, forse per porre in remissione, per esorcizzare la paura dello stato coscienziale punto morte (da verbalizzazione), ma anche per avvicinarsi, per penetrarla, per conoscerla, elemento che può assumere, in alcuni, il significato di sopravvivere meglio.
Per entrare in nuovi vissuti, è necessario ampliare quelli di provenienza. Non si tratta di morire al vecchio per rinascere al nuovo, in quanto, nel Tutto è legato, l’Universi, di cui siamo parte integrante (Universi-parte), sta dando prova di vivere, di esistere, quanto meno da miliardi di anni: tempi lunghissimi anche per la convenzione spazio-tempo. Ma, uscire da uno stato significa cambiare riferimento percettivo, conoscitivo e questo, spesso, provoca vertigini, paura, shock che annullano la realtà in tempi brevissimi, in alto, in quella grotta, in cima a quella calata o al momento di lanciarsi con il paracadute in volo libero (progressione Io-somato-autopoietica in aria).
In questi orientamenti, ho sempre sentito il bisogno di cambiare stato coscienziale, i paradigmi esistenziali. La grotta, la forra ed altro possono contribuire a stimolare tutto questo: è la spinta olistico-autopoietica al risalire che si manifesta con forza nell’Io-somato-autopoietico. L’Io-psyché sente la spinta innata a conoscere se stesso, a sperimentare il mistero della creazione che ha vissuto, quando era un semplice zigote e, cellula dopo cellula, si è per automatismo autopoietico costruito. Spesso, le prove di forza, di coraggio, sono la copertura della pulsione olistico-autopoietica a vivere, a conoscere. La spinta esige che l’Io-psyché trascenda se stesso, le proprie identificazioni: è una sfida che richiede il confronto tra ciò che l’Io-psyché è e la spinta autopoietica, per cui nasce la sensazione del vissuto significativo della macro esperienza, della performance straordinaria, che rappresenta il superamento del limite del proprio stato di autoconsapevolezza. È l’incontro di due opposti-complementari, la parte progressiva, che osa, con quella conservatrice e comoda, che non osa: esattamente, la forma di enantiodromia che il ricercatore in Sigmasofia tenta di reintegrare e trascendere consapevolmente.
Lungo il percorso formativo, è possibile partecipare-osservare che, pur essendo parte integrante della natura, il ricercatore, spesso, si trova ad essere meno in sintonia con essa, soprattutto quando questa mostra i suoi stati coscienziali, considerati e visti come negativi e distonici. Terremoti, alluvioni, eruzioni, crolli, inondazioni, bufere e cicloni ne sono parte, ma quell’Io-psyché, in balia degli elementi, se ne scinde e tenta di sopravvivere. Il punto è questo: si entra nella scissione schizoide dell’Io-psyché che ritiene che esista un soggetto e un oggetto, lui e la natura, e tenta azioni che lo pongono al di fuori della sfera d’azione dell’oggetto, creando, così, forme di opposizione che, autopoieticamente parlando, sono contro se stesso! Ormai, al di là della tradizione antica, ogni moderno laboratorio di meccanica quantistica è in grado di dimostrare che tutto è atomicamente legato e che esiste un’interazione forte, la non separabilità, l’entanglement tra le cose. L’uomo non è solo di fronte alle forze della natura, perché semplicemente ne fa parte: spesso, si auto-aggredisce e vanifica le proprie risorse in lotte, sostanzialmente inutili, contro la natura stessa. Durante la progressione in forra e in grotta, si pensa a far recuperare, attraverso il vissuto diretto, questa reintegrazione consapevole con la natura che già per intero gli appartiene, ma che, per scissioni dell’Io-psyché, ha perso. Si tratta di nevrosi iatrogene, indotte da coloro che, anche se in buona fede, ritengono che un soggetto sia separato dall’oggetto, non percependo l’unità inscindibile presente tra le manifestazioni differenti dell’esistente. È utile partecipare-osservare che, pur opponendosi, molti, però inconsciamente, sentono e intuiscono l’unità olistico-autopoietica, per cui iniziano ad oscillare tra fusionalità ed autonomia, per affermare la propria identità: forme di ambivalenza che, durante le uscite di Sigmasofia Ecologica, tentiamo di sanare.
Tutti gli stati coscienziali finora indicati sono sempre potenzialmente presenti nell’Io-psyché del ricercatore e possono esprimersi in ogni momento, durante le uscite in grotta o in forra. E’ compito del Maieuta e/o del Docente farle emergere, farle esplodere, per poi applicarvi la concentrazione autopoietica la Risalita e la transmutazione. Durante l’attività, escursionistica, speleologica o in forra, si interviene per porre in remissione fantasmatiche e problematiche di quasi ogni tipo e natura.
Spesso, durante le uscite, preferisco proporre esplorazioni non consuete, percorsi non conosciuti, inesplorati, sia interiormente che esternamente, in modo che la novità, la percezione di nuovi luoghi coscienziali ed esterni sia sempre possibile, per integrare o accrescere la propria consapevolezza.
Il ricercatore vero sa che non sono pochi i luoghi ancora da esplorare, sia interiormente che esternamente: semplicemente, è così. Ad ogni uscita, praticamente, ci capita di vivere qualche cosa di inaspettato, come gli attimi di indecisione sulla strategia da intraprendere: sono stimoli formativi per l’Io-psychè, che il ricercatore sperimenta o da solo o con il gruppo.
Il ricercatore in Sigmasofia ecologica si trova immerso nella natura vera, mai precostituita, pre-organizzata (tranne per quanto riguarda gli itinerari indispensabili a raggiungere un determinato luogo). Ci si trova sempre immersi in ogni tipo di sorpresa e questo, oltre che forgiante, ad escursione terminata è spesso molto apprezzato.
Il cultore della Sigmasofia Ecologica è motivato a percorrere quella parte di sé che chiama terra, grotta, monti, sotterranei, aria, cielo, volo, acqua, mari, laghi, fiumi, fuoco, e per ogni elemento l’Io-psychè esprime un peculiare approccio. Durante la formazione, vengono trasmessi specifici orientamenti, vissuti. Le progressioni, effettuate, in qualunque elemento, sono finalizzate alla presa di consapevolezza, all’auto-rigenerazione autopoietica e non alla prestazione fisica, alla sfida di percorrere in tempi più brevi la forra o ad affrontare la cascata più alta, utilizzando il percorso più difficile. Il paradosso consiste nel fatto per cui, con un tale approccio, spesso si risulta essere più allenati di coloro che puntano esclusivamente alla prestazione fisica o alla performance sportiva: pur non cercando il primato, in forra, può succedere di calarsi da altezze ritenute competitive per i professionisti. Nel tutto è legato, la presa di consapevolezza di uno è la presa di consapevolezza dell’altro: se, insieme e nello stesso tempo, si condivide, la stessa esperienza, finalizzando il tutto alla presa di consapevolezza di ognuno, ogni forma di competizione, nel tempo, può scomparire, semplicemente perché non serve: infatti, ci si sente interessati ai nuovi insights intuitivi che la situazione può suscitare. Si vive che non si tratta di fare meglio, ma di tentare esplorazioni maggiormente consapevoli, fatto che non può essere competitivo, perché ognuno, nella propria coscienza, esplora luoghi differenti. A noi interessa, fare quella discesa non in un’ora, ma in dieci, perché le autopoiesi, le meditazioni dinamiche richiedono tempo e applicazione e, così facendo, ci si può concentrare di più sul luogo esplorato, interiore o esterno.
Durante le uscite, anche in seguito a specifici stimoli, i ricercatori trovano a volte il modo di esprimere momenti di aggressività, di violenza: questo permette la destrutturazione, l’abreazione di stati istintivo-emozionali eventualmente presenti, per risalirli e trasformarli. L’orientamento all’abreazione di qualunque stato coscienziale e della relativa emozione è funzionale alla ricerca sulla coscienza che si sta affrontando in quel setting terapeutico allargato che è la natura, la grotta, la forra.
Il ricercatore in Sigmasofia è orientato verso il successo, inteso come presa di consapevolezza vissuta di un evento. Applicando particolari codici, si utilizzano le distonie, le problematiche, i sensi di colpa, di inferiorità come campo di forza, per prendere coscienza, per potenziare il lavoro di ricerca.
È una forma di Sigmasofia marziale che non uccide il nemico, il sintomo, la patologia, ma lo reintegra e lo trasmuta a sostegno dell’azione di presa di consapevolezza che si sta agendo.
In forra, in grotta, attuiamo questo, consapevolmente. Non si tratta di una forma compensatoria, ovviamente, ma quanto di un utilizzo degli stati coscienziali, positivi o negativi e del relativo campo istintivo-emozionale, disponibili. L’ostacolatore, il sintomo, diventa potenza, forza, a sostegno della ricerca.
Ed ecco che le frustrazioni, le problematiche quotidiane, i sintomi, opportunatamente risaliti e transmutati, divengono il motore della ricerca. In Sigmasofia, si attinge sia dalle esperienze, interpretate come negative, sia da quelle percepite come positive: si attinge da entrambe, dalla fisiologia che muove e fa sì che più si trasmuta e si reintegra, più si penetra la vita.
Andare in grotta è un’operazione esistenziale che il ricercatore in Sigmasofia attua (o dovrebbe attuare) in ogni momento della giornata: la grotta, la natura, la forra sono uno stato coscienziale. Quando il ricercatore va in pizzeria, in discoteca, al cinema, al luna park, in grotta o in altro luogo vive il pathos, la passione che lì può essere emessa, agita, e trasmutata. E questo si apprende, grotta dopo grotta, forra dopo forra, si assiste alla crescita irresistibile del proprio aggredior, del pathos. La ricerca, il vissuto diretto, diventano determinazione assoluta, l’intensità della motivazione, fondamentale, condizione che mette in remissione il moto esistenziale e che gli fa sempre sapere che cosa fare, come agire. Una volta entrati nell’orientamento vissuto, è rarissimo che non si porti avanti l’attività di ricerca: ci si trova sempre ad essere più propositivi, accentuando in modo impressionante la tendenza verso l’esplorazione, la scoperta di sé, dell’Universi-parte.
Quanto indicato, si manifesta progressivamente, ed è vero che, essendo un percorso particolare, in qualche modo la motivazione verso questi ambiti è già presente precedentemente alla formazione. Sono persone che spesso sentono un interesse vivo, olistico, non soltanto per le escursioni, le grotte, le forre, ma sentono che la formazione vissuta, complessiva, su tutti i piani, diverrà l’occupazione della loro vita.
Anche concentrare la propria attività soltanto nella discesa in grotta o nelle calate in forra, significherebbe trovarsi di fronte ad una distonia da sanare, esattamente come chi, nella vita si identifica in una sola componente.
I ricercatori che praticano la Sigmasofia Ecologica privilegiano inequivocabilmente la pratica, il vissuto diretto, hanno uno specifico orientamento, chiaro: basato su arte, creatività, Creazione Continua, autopoiesi. Sono pronti a vivere qualunque fantasmatica o problematica esistenziale, anche profondamente intima: è questa intenzionalità che si richiede come contratto formativo. Come detto, è necessario superare molte difese e resistenze interiori ed esterne. Inoltre, molti ricercatori sanno individuare progressivamente sempre con maggiore intensità e penetrazione le motivazioni che li spingono a seguire una ricerca così peculiare o il motivo per cui praticano la Sigmasofia Ecologica.
Seguire la formazione in Sigmasofia coinvolge e mette, per definizione e di fatto, sempre in discussione, in sperimentazione le parti più intime dell’essere, per poter riconoscerle, vivere la propria avanguardia Io-somato-autopoietica e a posizionarsi nella contemplazione dell’oltre, avanguardia dell’ignoto-inconscio che dovrà andare ad esplorare interiormente ed esternamente. Non è l’ignoto che attrae, ma l’Io-psyché che ravvede la necessità di recarsi in quei luoghi.
Talvolta, ci è capitato di esplorare regioni dell’inconscio, di quella grotta o della forra ancora inesplorate, di vivere insights intuitivi e sincronici, di estrapolare in-formazioni innovative che abbiamo poi inserito nella formazione che proponiamo. Come orientamento, il ricercatore non ha remore di nessun genere a raccontare, a chi vuole ascoltarlo, la propria esperienza vissuta, di qualunque natura sia, indipendentemente da quei discorsi, dal fatto che quei luoghi gli siano familiari o no: è la sua richiesta di ascolto che legittima il nostro racconto, processo che, tra l’altro, naturalmente pratichiamo all’interno della formazione.
Per il cultore della Sigmasofia, l’intimo è dell’Universi-parte, è, quindi, anche parte dell’interlocutore, anche di quello più difeso. Ovviamente, questo non significa che non si rispetti il tono, il momento dell’altro. In definitiva, il ricercatore in Sigmasofia pratica escursioni, va in grotta, in forra e in molti luoghi del proprio inconscio, interiori ed esterni, ancora inesplorati per trarne informazioni da far ricadere nella propria azione quotidiana, a quel punto, maggiormente ampia.
Entriamo ora in alcuni vissuti.
Quando è in forra, l’Io-psyché del ricercatore, utilizza sempre alcune delle facoltà di cui dispone. Partecipiamone-osserviamone, tra le tante, due in particolare: la percezione e i sensi.
Per la Sigmasofia, la percezione è un processo dinamico dell’Io-psyché che irradia su un oggetto il proprio campo percettivo-sensoriale e, dopo averlo incontrato, applica il pensiero ed è in grado di tradurlo in linguaggio. Durante questa operazione, l’Io-psyché attraversa diverse fasi (sono quasi simultanee). La prima consiste nella radiazione, processo attraverso cui si irradia aggredior e si utilizzano i sensi nei confronti di un oggetto, interiore od esterno, lo si riconosce come fra un radar che scandaglia. Infatti, la percezione non è mai una ricezione, perché, atomicamente, siamo collegati e indivisibili dal tema indagato (livello che anche a molti specialisti della percezione risulta essere ignoto). Dopo aver irradiato, la percezione deve, necessariamente, discernere tra ciò che vuole partecipare-osservare e la presenza di una quantità enorme di altri oggetti che costituiscono l’ambiente, l’Universi-parte. La radiazione percettivo-sensoriale, infatti, colpisce tutti gli oggetti esistenti, ed è proprio la modulazione dell’Io-psyché che la orienta sulla parte verso cui mostra interesse. Fatto questo, utilizzando il pensiero e la verbalizzazione (Io-somato-autopoietica), il ricercatore tenta di descrivere ciò che ha riconosciuto, tramite i sensi. La radiazione dell’aggredior avviene attraverso i sensi che sono molto più di cinque, e, attraverso tutta la superficie corporea. Ogni cellula emette radiazioni. Tutta la radiazione emessa (infrarosso, ultravioletti, ecc.), sensoriale e Io-somato-autopoietica ci permette di vivere e di prendere una serie di in-formazioni che andranno a sommarsi a tutte le altre esperienze percettivo-sensoriali registrate, memorizzate e che, soprattutto nell’acquisito, ci permetteranno di organizzare l’azione quotidiana, le esperienze che vogliamo vivere. Spesso, il ricercatore ha la sensazione, l’illusione di utilizzare un senso o l’altro, ma le cose non funzionano così: di fatto tutti i sensi, ovvero tutta la percezione è accesa ed è il livello di identificazione, di attenzione dell’Io-psyché che si posiziona su un’espressione o sull’altra ma, ripeto, la radiazione percettivo-sensoriale si manifesta in modo unico, non settorializzato.
Voglio comunicare che tutte le percezioni irradiano e l’Io-psyché le modula indirizzando l’attenzione sull’una e sull’altra, e così si ha l’illusione di aver sviluppato un modo di sentire rispetto ad un altro: questo è uno degli elementi che, in tempi brevi, correggiamo quando entriamo in natura (forre, grotte), in modo che il ricercatore possa viaggiare con la propria totalità percettivo-sensoriale, aperta integralmente e simultaneamente funzionante. A seconda dello stato di autoconsapevolezza, leggiamo, interpretiamo, viviamo sia l’interiore che l’esterno, poichè lo stato di autoconsapevolezza risulta essere differente per ogni Io-psyché: ognuno veicola la propria interpretazione del tutto, dell’Universi-parte, sensibile e sovrasensibile di cui è parte integrante, non scissa. Lo stato di autoconsapevolezza è il filtro e, in quel momento, l’avanguardia possibile al ricercatore, è proprio questo stato che si tenta di potenziare, di ampliare durante la vita, la formazione, la Sigmasofia Ecologica.
In natura, troviamo diverse condizioni di luminosità: da un massimo di luce, percepibile in luoghi totalmente aperti, come l’equatore, a luoghi assolutamente bui, come le viscere di una grotta.
Una considerazione: nella realtà autopoietica, il buio non esiste, ma esiste una posizione che assume un’area del pianeta Terra nei confronti della radiazione solare. Chiamiamo buio lo spostamento della parte che si nasconde alla radiazione fotonica. In grotta accade la stessa cosa: le pareti, gli antri bloccano quella radiazione e noi registriamo tale processo come buio. Quando chiudiamo la finestra di una stanza, si forma il buio che, di fatto, è una dimensione non autopoietica presente soltanto in determinate condizioni. Una delle prove: quando apriamo la finestra non è il cubo di buio che si sposta verso la luce, ma l’opposto e la stanza s’illumina. Esiste una sola condizione che è di luce e che a volte assume una determinata posizione o conformazione esterna o interiore.
È esattamente come quando nell’interiorità ci identifichiamo in un problema, in un sintomo e non pensiamo ad altro: in quel momento, diventiamo l’identificazione e perdiamo la connessione con la nostra potenzialità e condizione olistica-autopoietica. In natura, nei cicli circadiani, in realtà, opera soltanto la luce: il buio (da cui l’alternarsi della giornata) è una condizione fittizia da penetrare con maggiore profondità.
In grotta, entriamo in un luogo in cui di solito questa condizione emergente, riflessa, agisce totalmente e la dimensione autopoietica della luce del sole è totalmente assente! E’ uno dei motivi per cui il buio ha assunto valenza negativa, in quanto non è un processo autopoietico, innato, ma una dimensione, per così dire, acquisita. Di conseguenza, l’atmosfera della grotta in riferimento al buio è fuori autopoiesi: per questo, in Sigmasofia Ecologica, cerco d’insegnare, di orientare sulle modalità che
consentono di ritrovare la luce nel buio!
Lo speleologo classico usa le lampade speciali: il ricercatore in Sigmasofia, si attiva e si organizza per ritrovare visione, luce in grotta, nell’interiorità, senza l’ausilio della tecnologia. Cerca interiormente l’uscita dall’identificazione, dal sintomo-patologia per recuperare funzionalità autopoietiche che, trasmesse nell’ambiente (buio), lo modulano con la fluidità-consapevolezza, per cui come per incanto, in quei momenti, l’Io acquisito, la percezione, i sensi riescono a vedere meglio e scorgere più particolari e forme.
Andiamo in grotta per destrutturare e trasmutare la condizione riflessa buio, per ritrovare la chiarezza, la luce intesa come il naturale fluire interiore ed esterno del campo morfo-atomico-coscienziale che forma l’Io-somato-autopoietico di cui siamo composti.
Il cultore della Sigmasofia non si conforma al fluire della luce e del buio, perché intuisce dal vissuto che esiste una sola condizione: la luce che, purtroppo, nella vita spesso perde, cadendo nel sintomo, nella riduzione, nella distonia.
Conduciamo il ricercatore oltre i ritmi circadiani, normalmente intesi. In quest’orientamento trovano specifiche remissioni tutte le forme distoniche legate alla condizione di buio, di cui, spesso, molti Io-psyché riferiscono. Ricolleghiamo progressivamente l’Io-psyché alle funzionalità autopoietiche che nascono dall’interazione con la luce e che nel corpo si manifestano attraverso la melatonina, il cortisolo, la prolattina. Tutto contribuisce a ripristinare la condizione di luce dove c’è il buio: il sintomo, la patologia, l’identificazione in spazi Io-somatici delimitati, chiusi, condizione caratteristica della grotta. È vero, c’è un ingresso, ma all’interno non è più possibile percepire la linea dell’orizzonte, tutto è ristretto, chiuso. Non si può vedere in profondità, in lontananza, ma soltanto lì, intorno a noi, in quel luogo, è necessario trovare la via d’uscita da quella chiusura. Spazi angusti, strettissimi, in cui si striscia, non si vede, ci si sfrega, s’incontrano improvvisamente strapiombi, si è ostacolati nel movimento rispetto ad uno spazio libero, ci si muove strisciando nelle viscere. Il corpo vive empaticamente quella condizione, è costretto, ci sono suoni-silenzi-gemiti, tutte condizioni di funzionalità Io-somatica. Anche in quei luoghi, si orienta il ricercatore verso una penetrazione vissuta dello spazio, dell’identificazione, del sintomo. O ritorno da dove sono entrato, nel luogo di luce conosciuto, o ne cerco un altro! Ecco che, scendendo più in basso, penetrando, risalendo lo stato coscienziale, l’elemento in cui ci si è identificati, si può percepire la fisiologia che lo forma e scoprire che appartiene ad ogni stato coscienziale, ad ogni identificazione, ad ogni buio, al tutto è legato, interconnesso, che si sta vivendo in quella situazione. Sono momenti in cui, se si è ben allenati e orientati, si può prendere coscienza dell’atomo e, abbinando le autopoiesi non locali, esplorarlo coscienzialmente, uscendo così da quella grotta, da quell’identificazione, non dal luogo in cui ci si trova. Lo si penetra, si entra nell’antimateria, nelle dimensioni adiacenti all’atomo, nel campo morfo-atomico-coscienziale o inconscio strutturale, nelle bios-luminescenze, nelle autopoiesi, nella fisiologia autopoietica, negli archetipi autopoietici, nell’autocoscienza autopoietica, ossia, nella luce di cui la natura, l’essere umano, l’unico corpo, si sostanzia e da cui emerge.
Dal buio alla luce, penetrando la grotta, se stessi.
Quello spazio chiuso, privo d’orizzonte, stretto, angusto, diventa la porta per livelli d’autoconsapevolezza autopoietica, diviene Bios, luce di vita.
Quell’atmosfera monocromatica, buia, o quella tonalità fissa di colore che si percepisce a lampade accese, ci fa vivere una variazione-contrasto che ci permetterà di riconoscere i colori dello spettro sensibile e le tonalità sovrasensibili, diverse dalla manifestazione del calore: l’infrarosso, gli ultravioletti, i raggi x e gamma sono tonalità di colore sovrasensibile che la coscienza dell’atomo e la sua penetrazione ci permettono di vivere.
In grotta, ci si orienta verso la coscienza dell’atomo, della cellula, per cui si vive l’esperienza che, da un’apparente riduzione-collasso delle facoltà percettivo-sensoriali, si giunge alla fisiologia autopoietica che forma quegli strumenti dell’Io-psyché, e da lì, tutte le sue funzioni come, pensare, volere, sentire, concettualizzare, immaginare: elementi che si potenziano enormemente.
Siamo alla fonte.
Le escursioni, le grotte, le forre, l’alpinismo, le immersioni subacquee, il paracadutismo, che pratichiamo in chiave coscienziale, non lasciano intatto l’Io-psyché che li vive, in quanto ne è parte, e per i motivi di cui sto trattando. Inoltre, i riferimenti spazio-temporali si modificano in conseguenza di quanto riferito. Diceva un ricercatore: Non sapevo più quanto tempo fosse passato, se cinque minuti o due giorni, la disidentificazione completa dell’Io-psyché dallo spazio-tempo al momento in cui si entra, consapevolmente o inconsapevolmente, in quelle aree di solito inconsce, nella coscienza dell’atomo. In quel tutto è atomicamente e coscienzialmente legato, il concetto di spazio va in remissione, è una grandezza pressoché transfinita, è questa la sensazione, la condizione che rende infinito anche il tempo! Un altro dei motivi per cui pratichiamo la Sigmasofia Ecologica, è il continuo presente che si manifesta in modo naturale, senza la necessità di stati di ipnosi, di sogno, di deprivazione sensoriale.
Moltissimi ricercatori, inizialmente, riferiscono che neanche sospettavano l’esistenza delle facoltà, delle possibilità appena descritte. Alcuni di essi, mostrano molte difese ad entrare in quei luoghi interiori ed esterni, estranei ai terreni noti, di provenienza: ad avventurarsi in terre ignote, che cosa si può incontrare? Avrebbero saputo gestire eventuali pericoli? In quelle situazioni, possono manifestarsi la thanatos-fobia, la fobos-fobia ed è anche per superare queste identificazioni che ho ampliato il setting della Maieutica e della Docenza di Sigmasofia.
Spesso propongo lunghe esplorazioni ed anche lunghe permanenze, di due, tre, sette giorni in luoghi difficili, impervi, o in condizioni del tutto differenti da quelle normalmente praticate: la forra, la grotta, le escursioni si prestano meravigliosamente a questo. In quei luoghi difficili, remoti, è possibile ampliare lo stato di coscienza: sono facilitatori di modificazioni Io-somato-autopoietiche che la pratica delle Autopoiesi olografiche non locali amplia in maniera enorme.
La Sigmasofia ha vissuto che l’Io-psyché è simultaneamente un processo locale e non locale, si estende ai piani Io-somatico ed autopoietico (un campo unico), un essere sensibile e, soprattutto, sovrasensibile. E’ la misura di quanto siamo consapevoli di noi stessi e dell’ambiente che ci circonda: un’unità eco-sistemica cosmica che ho denominato l’Universi-parte. E’ anche la misura di quanto l’Io-psyché ha saputo superare, la gravissima scissione che gli fa ritenere di essere separato dal mondo cosiddetto esterno e che questo sia uno spazio delimitato. La percezione che soggetto e oggetto sono indistinguibili, sono un campo unico, per la Sigmasofia è un segno di amalgama e di profondità: questo non significa che il ricercatore non sappia muoversi meravigliosamente anche nel mondo identificato e funzionante nella scissione schizoide dell’Io-psyché che ritiene che esista un Io e un Tu, un soggetto e un oggetto. E’ una condizione che utilizziamo per lavorare, per relazionarci con l’altro, che funziona, in qualche modo, ma che, appena possiamo, abbandoniamo in favore di altre modalità.
Il livello di autoconsapevolezza che un ricercatore esprime può essere variato, alterato, attraverso la pratica delle Autopoiesi olografiche che proponiamo. E’ possibile entrare nel sogno lucido, nell’estasi, nella beatitudine, nella trance, nell’ipersensibilità, come nello stato coscienziale Sigmasofia che permette tutta una serie di prese di consapevolezza.
Per il ricercatore in Sigmasofia, è assolutamente normale e ordinario entrare in uno stato differente di coscienza.
Il raggiungimento dello stato differente di coscienza, dell’ipersensibilità, dello stato coscienziale Sigmasofia, è per noi perfettamente traducibile nel linguaggio verbale, logico, intellettuale, analitico e su questo piano, tutti, in qualche modo e misura, possono comprendere di che cosa si tratta. Ovviamente, resta l’imperativo che sono stati differenti di coscienza da vivere, e soltanto dopo la traduzione in linguaggio, uno dei capisaldi della pratica della Sigmasofia Ecologica.
Provo a descrivere in parte alcune caratteristiche dello stato differente di coscienza.
In alcune situazioni, ci capita che non si deve assolutamente sbagliare: l’azione che dobbiamo realizzare è quella e solo quella, altrimenti rischiamo l’incontro con il punto morte. Penso ad alcune calate di decine e decine di metri sotto cascata, a passaggi impegnativi, esposti che mi è capitato di attraversare senza protezione. In quei momenti, l’Io-psyché si concentra soltanto ed esclusivamente sull’operazione da fare, senza distrazioni. Tutti gli stati coscienziali si reintegrano in quel passaggio: la manifestazione della reintegrazione consapevole della fisiologia che sottende tutti gli stati coscienziali, trasformandoli in pura potenza, attiva, creatrice, a sostegno di quello da fare, è una delle caratteristiche dello stato coscienziale Sigmasofia.
In quei casi, l’Io-psyché e l’azione, già forte e consapevole della non separazione tra soggetto e oggetto, fluiscono senza discrepanze. Risultano essere efficaci, creatici e l’Io-psyché diviene addirittura più presente e consapevole della fisiologia che lo forma mentre agisce. Significa maggiore presenza olistica all’azione che si compie e rappresenta una delle considerazioni che permette il riconoscimento dell’unità ecosistemica cosmica che siamo.
Quando i ricercatori che accompagno in grotta o in forra, si trovano ad affrontare quel salto di trenta o di ottanta metri, di fatto, entrano in uno stato differente di coscienza: la situazione stessa di pericolo determina questo stato, adeguatamente potenziato, dalla pratica mentale o Io-somatica delle Autopoiesi olografiche che fungono da amplificatori di quell’alterazione. E’ una condizione raggiunta per attivare consapevolmente aree del cervello rettilico e del cervello midollare, zone attraverso cui l’Io-psyché recupera potenziali Io-somato-autopoietici di cui, di solito, non è consapevole e che non utilizza.
Il ricercatore attiva anche fisicamente, soltanto le funzioni utili per ciò che deve compiere; la fisiologia, l’Io-psyché si adeguano. Le Autopoiesi esaltano tutto ciò e si entra in forme di ipersensibilità attiva, durante l’azione pericolosa. E’ proprio quest’ipersensibilità risvegliata ciò che mi permette di dare l’indicazione di sostare nel luogo di maggiore pericolo, di scendere sotto la fortissima cascata e, anziché fare una chiave di bloccaggio sulla corda e sostare per un tempo significativo in quella situazione, velocizzare l’azione. L’ipersensibilità, le Autopoiesi, il pericolo gestito creano la condizione interiormente ed esternamente Io-somato-autopoietica che fa comprendere che cosa sia uno stato differente di coscienza: si visualizzano immagini, compare un flusso continuo di insights intuitivi, sincronici anche significativi. Possono innescarsi processi di srotolamento e il ricercatore ha la sensazione di rivivere tutta la storia della sua vita, e oltre, in pochissimi secondi, ma è come se rivivesse ogni singolo momento di ogni singolo anno: possono emergere retrocognizioni o precognizioni.
Lo stesso può accadere in grotta. Quando ci troviamo nelle sue viscere, entriamo in uno stato di fusionalità con quella roccia, con quella terra, con quel cunicolo strettissimo e restiamo immobili, praticando mentalmente le Autopoiesi olografiche, anche per dieci o più ore: in quel buio assoluto, può scattare quanto riferito prima. Il ricercatore in formazione sa dove passare, se vuole raggiungere lo stato differente di coscienza.
L’Io-psyché, riscopre che la fisiologia autopoietica che la forma muove nel DNA, negli atomi, quindi, ovunque; vive la componente non locale dell’Io acquisito, che scopre unita e interdipendente con quella prodotta dal sistema nervoso, con l’uso che fa del cervello, modulandosi, diventando stato coscienziale, emozione specifica. Lo stato differente di coscienza è sempre il superamento vissuto della località. E’ non località.
Lo stato coscienziale autopoietico Sigmasofia è raggiungibile dall’Io-psyché e non accade mai a sua insaputa: tutto è organizzato affinché lo si raggiunga consapevolmente.
Essendo una facoltà della coscienza, è sempre raggiungibile, evocabile e, durante le esplorazioni di quella parte di noi stessi che chiamiamo grotta, forra, bosco (…), può trovare peculiari forme di manifestazione sensibile.
Come detto, spesso decidiamo di fermarci per tempi lunghi in grotte anche molto profonde, in una condizione di buio totale, con la proposta specifica, inequivocabile, e possibilmente non trasgredibile, di non accendere alcuna luce. Nel ricercatore in formazione, rarissime volte, quella situazione crea sensazioni di vuoto. Infatti, avendo già lavorato al risveglio consapevole della propria memoria, al sogno lucido, al vissuto della fisiologia autopoietica che forma gli stati coscienziali, sa come e di che cosa investire quel luogo. Nella continuità tra buio interno e buio esterno (un campo unico), inizia ad irradiare le facoltà percettivo-sensoriali che ha in sé, e tutti gli altri contenuti. Quel vuoto viene riempito dalle radiazioni Io-somato-autopoietiche, dalle esperienze e dalle forze strutturali innate: ed ecco che si prende coscienza che il buio è illusione, e si vede più che nitidamente. E’ noto che la percezione è legata alla propriocettività. E’ possibile immaginare o inventare forme, ma anche percepirle nitidamente, intuirle. Il sistema percettivo-sensoriale, tutte le facoltà autocoscienziali penetrano inequivocabilmente il buio, e questa è pura funzionalità.
Paradossalmente, in quella condizione illusoria che denominiamo buio, la percezione e i sensi funzionano di più, appunto perché possono concentrarsi maggiormente sulla facoltà percettivo-sensoriale prodotta dal cervello, senza interferenze con oggetti del tutto è legato che, inizialmente nel momento del buio, non sono riconoscibili, anche se la funzione cerebrale che produce la percezione e i sensi, è attiva. Non sono i cosiddetti stimoli esterni che attivano il sistema percettivo-sensoriale, poiché questo è acceso, vivo e funzionante, indipendentemente da ciò che sembra innescarlo. Nei fatti, noi siamo atomicamente e coscienzialmente collegati con la parte che denominiamo illusoriamente essere esterna e, quindi, per definizione, la radiazione percettivo-sensoriale è sempre un fatto, un funzionamento dell’unico corpo che siamo: non c’è nulla che innesca, nessuna radiazione, ma soltanto la presa di consapevolezza di quella funzionalità. Più irradiamo, più produciamo percezione, stati coscienziali, fisiologia autopoietica, stati alterati di coscienza; più il buio tende a scomparire, più prendiamo coscienza dell’unico corpo e più ci rendiamo conto dell’illusione, della non esistenza, strutturalmente parlando, del buio. Più si riconoscono e si utilizzano queste facoltà, più si perdono i confini Io-somato-energetici, perché questi non sono mai esistiti, se non per l’Io-psyché che li genera, che li mette, che li proietta. L’Universi-parte è un essere non locale, o meglio, la località è l’Universi-parte, noi stessi. In questo stato di coscienza, l’Io-psyché recupera la sua vera identità autopoietica, ripeto, di non separazione tra l’Io-psyché e l’oggetto. L’Io-psyché penetra realmente quel buio, recuperando un funzionamento strutturale, complessivo che pone in remissione il buio, ma che ha valore soltanto nella non località, processo complessivo ampio che non trova applicazione efficace nel localistico. Risulta inadatto per quella situazione, per cui pur contenendola, non si permette di muoversi efficacemente, perché la radiazione percettiva emessa incontra un ambito, un luogo in cui le pareti ostruiscono la percezione solare. Questa può essere ritrovata nel tutto è legato interiore, che è, ripeto, lo stato di consapevolezza funzionale all’Universi-parte, non a quella parte che denominiamo grotta, forra.
L’Io-psyché, modula i sensi, la percezione, ma a sua volta risulta essere modulato da forze strutturali, da cui la percezione stessa nasce. Nel caso in cui le memorie registrate interagiscano con l’Io-psyché, con la percezione, con i sensi, si dà luogo a ciò che denominiamo ideoplastie: l’idea diventa plastica, ossia, i contenuti dell’inconscio individuale e di quello collettivo possono essere proiettati in quella continuità di buio interiore ed esterno e, quindi, visualizzate ad occhi aperti. La storia registrata, memorizzata, che ogni Io-psyché veicola, si mostra davanti a noi, ed ecco che quei suoni, quelle voci, quelle persone ideoplastiche che proiettiamo ci parlano della nostra storia, dei nostri contenuti: in quella grotta, in quella forra, entriamo in un viaggio di conoscenza di noi stessi. Se con l’Io-psyché riusciamo a raggiungere consapevolmente l’inconscio collettivo, la proiezione ideoplastica assume la stessa valenza e il vissuto trascende l’individuale. Quella che erroneamente chiamano allucinazione visiva o uditiva, come abbiamo verificato, è sempre un documento, un contenuto dell’interiorità del ricercatore, perché non potrebbe produrre ciò che non ha! Non è mai un oggetto che giustifica una sensazione-percezione, ma è sempre la percezione-sensazione che può riconoscere e denominare un oggetto: è l’esatto contrario di quanto comunemente si pensa. Troviamo prove di questo, quando, dopo progressioni che già stancano, propongo al ricercatore di spaccare la legna o i sassi allo scopo di stancarsi fino a sentirsi completamente esausto: la stanchezza, infatti, mette in remissione alcune funzionalità neocorticali di controllo e l’Io-psyché può incontrare la parte inconscia di sé, fatto che facilita l’incontro con le memorie registrate. Da chi entra in questo stato, si possono ascoltare racconti di esperienze che, spesso, non risultano credibili per la logica convenzionale, normalmente accettata, che può portare ad uno stato di riduzione, di allucinazione localistica neocorticale acquisita.
Il concetto convenzionale di tempo non ha nulla a che fare con la vita autopoietica. Essere vivi è scoprire semplicemente la condizione legata al continuo presente strutturale che annulla l’illusoria sensazione che il tempo scorra (esso è sempre lì dov’è), convenzione che l’Io-psyché ritiene vera, reale. Il tempo non fluisce, né dentro, né fuori di noi. Lo stato di inconsapevolezza millenario, che molti Io-psyché veicolano, crede che il tempo segua la successione passato, presente, futuro e che vada soltanto in quella direzione: questo ha valore per le regole convenzionali che ci siamo date in quest’epoca, ma non ha alcuna valenza negli stati differenti di coscienza, nel mondo strutturale. Segnali che la convenzione tempo abbia qualche cosa che non quadra rispetto alla realtà autopoietica si evidenziano, quando il ricercatore in formazione la vive con diversi significati. All’uscita in forra, ascoltai due distinte verbalizzazioni: dopo quindici ore di escursione, uno disse: Il tempo mi è volato, ho la sensazione di essere entrato un attimo fa; l’altro disse: Mi sembra che siano passati giorni: per me è stato veramente interminabile.
La percezione del tempo e il riconoscimento del continuo presente non appartiene alle diverse specie viventi, bensì allo stato di autoconsapevolezza di ogni Io-psyché.
L’Io-psyché dell’essere umano ha inventato il concetto di tempo e di spazio.
Il tempo è un prodotto del pensiero. La successione di pensieri è tempo acquisito che ha valore per l’organizzazione sociale e tecnologica, ma non ha alcun significato negli stati alterati di coscienza.
Quando il ricercatore in Sigmasofia va in forra non applica i codici convenzionali con cui vive la località, che ha come riferimento il ciclo del sole.
Gli esseri umani, autopoieticamente, non sono predisposti secondo le modalità conosciute. Infatti, da esperimenti fatti, è risultato che un ritmo biologico più vicino, più plausibile, è quello che naturalmente si regola con una giornata che comprende il giorno e la notte. Soltanto dopo, innesca le sei, otto ore di riposo, destrutturando il ritmo naturale e decidendo che durante il giorno si compiano azioni e che durante la notte si dorma. Di qui, deriva uno dei motivi per cui il neonato sembra acquisire il ritmo circadiano, normalmente inteso, soltanto dopo la nascita. E’ una costruzione dell’Io-psyché talmente ripetuta che quasi tutti si sono necessariamente conformati. Ci sono molti cicli biologici che si sono modificati in conseguenza dell’identificazione nel tempo psicologico-convenzionale.
Ho verificato che il ritmo circadiano sigmasofico si avvicina alle ventiquattr’ore di attività, seguita da circa sette ore di riposo: ciò modifica radicalmente il modo di impostare e di vivere la giornata. Inglobando con continuità la notte, funzioni che prima erano patrimonio del tempo notturno, non consce, tendono a divenire consce. Per esempio, le funzioni cerebrali che sottendono al controllo del sonno, del sogno e del sonno senza sogno, tendono a diventare coscienti (il cervello funziona olisticamente), e si producono i meccanismi di autoguarigione dalle nevrosi, dallo stress che vivono coloro che si situano fuori dal tempo strutturale, ossia, la prevalenza degli esseri umani, regolata sui cicli circadiani. Vivere fuori dal tempo autopoietico, scambiato per ordinarietà, per normalità, è una delle cause dell’aumento esponenziale delle depressioni, dello stress, delle crisi di panico, delle patologie Io-somatiche che partecipiamo-osserviamo sempre più nelle persone che formano l’organizzazione sociale che ci siamo dati.
Lo stato psico-fisiologico in cui vive la nostra società, fondata su un disallineamento del ritmo autopoietico dal ritmo circadiano (normalmente inteso), è uno dei fattori che genera ansia, timore, inquietudine, per questo, assistiamo a inevitabili meccanismi di fuga da vissuti più autopoietici: sono componenti di ciò che ho denominato la patologia identificativa dell’Universi-parte, un altro dei motivi per cui la formazione a noi stessi è, per noi, vitale.
Nel momento in cui il ricercatore in Sigmasofia vive la grotta, la forra, raramente pensa al momento in cui quell’esperienza finirà, perché sa, ha vissuto, che l’apertura all’insight intuitivo, a rivelazioni particolari, può accadere ad ogni Autopoiesi. Lungo l’ultimo tratto, alla fine dello stage, si ritarda un po’ per tentare di vivere momenti in più. Si sfruttano tutti gli attimi del qui ed ora, per quanto possibile, si cerca di allontanare l’inevitabile reingresso nella condizione quotidiana che segue e che, necessariamente, tende a ristrutturare l’Io-psyché. Il ricercatore cerca comunque di trasferire, di far ricadere in ogni momento della giornata quanto apprende nei momenti formativi dedicati alla ricerca pura.
Sappiamo che, per sperimentare profondamente i fatti interiori ed esterni, è necessario tempo (nell’accezione comune). Per questo, ogni uscita da noi proposta dura sempre un po’ di più del normale. Tutte le Autopoiesi che si praticano sono organizzate affinché il ricercatore possa viversi, scoprire ogni singolo dettaglio e particolare dell’esperienza, dell’ambiente interiore ed esterno che sta sperimentando. Tutto è predisposto per mettere in remissione ogni possibile difesa o meccanismo di fuga.
Quando realizziamo un’escursione, una progressione in forra, in grotta, entriamo in quell’atmosfera autopoietica, di ricerca ed è come se le caratteristiche di quell’ambiente, di quell’atmosfera si incollassero addosso e non vorremmo mai più abbandonarle; infatti, uno dei suggerimenti è, una volta tornati a casa, di ritardare la doccia, proprio per mantenere quegli odori peculiari, inconfondibili, come il sapore del tufo etrusco; restare più tempo possibile per vivere quella situazione, senza alcuno stress o tensione, condizione che, talvolta, nella vita di ogni giorno, alcuni ricercatori riferiscono di aver difficoltà a vivere.
Tutto ciò che è sovrastruttura, non utile al vissuto autopoietico, se possibile, viene messo da parte, si tende ad eliminare oggetti di cui si può fare a meno. Ogni giorno un’identificazione in meno! Anche il cibo e le bevande sono gestite per garantire l’essenziale funzionale: siamo interessati alla semplicità, le sovrastrutture, gli oggetti, gli occhiali da sole, i cibi particolari, le suppellettili inutili, sono elementi che ci creano lievi fastidi. Si tende a sostituire ogni oggetto sovrastrutturale o mediatore con l’oggetto autopoietico, ossia con ciò che la natura viva ci mette a disposizione.
Un altro degli obiettivi che mi prefiggo è quello di stimolare con forza l’Io-psyché, l’organizzazione Io-somato-autopoietica perché produca più endorfine, fatto che migliora lo stato generale e facilita la ricerca, la pratica delle tecnologie che propongo, le droghe interne che facilitano l’accesso allo stato differente di coscienza.
In conclusione, posso dire che, di fondo, siamo motivati verso la formazione vissuta a noi stessi, che la svolgiamo a trecentosessanta gradi, olisticamente, e di cui fa parte la Sigmasofia Ecologica.
Talvolta, incontrare se stessi può essere difficile, da taluni è letto come pericoloso, ma è proprio questo che interessa al ricercatore in Sigmasofia. Si tratta di scoprire le dinamiche funzionali e strutturali che regolano quella parte del nostro corpo: operazione per cui è necessario sviluppare una specifica autodisciplina, quella che ci permette di diventare come l’acqua, ossia, di acquisire la capacità di assumere la forma del contenitore che la veicola, per scoprire successivamente ulteriori approfondimenti: è la possibilità di accettare e di vivere empaticamente qualsiasi parte del proprio corpo, interiore o esterno.
Ciò ci consente di sperimentare quello che crediamo sia lo stato differente di coscienza, ma che in realtà è quello che dovremmo riconoscere come ordinario. Arriviamo ad ascoltare il battito cardiaco dell’unico corpo che siamo, e non soltanto il nostro: la funzionalità del continuo presente è ciò che ci interessa.
Il mondo, il cosmo, l’Universi, noi stessi che ne siamo parte integrante sono un solo corpo, un Io solo esisto, che partecipa-osserva e riconosce se stesso.
Si tratta di entrare in uno stato di autoconsapevolezza in cui, vivendola, se ne riconosce il suono, la melodia. L’Universi-parte è solo, vive forme di solitudine autopoietica che ingloba tutte le manifestazioni, le comunicazioni relazionali, delle proprie funzionalità. Tale tipo di solitudine autopoietica è la bellezza autopoietica.
L’Universi-parte vive nello stato di fusionalità. Tutto è atomicamente e coscienzialmente legato, questa funzione è autopoietica e sviluppa moti d’identità, di autoconsapevolezza. Per questo, attraverso la formazione in Sigmasofia, è possibile incontrare
i nostri reali genitori ossia
l’androginia autopoietica dell’Universi-parte,
il nostro padre-madre originario,
colui che ci ha educato e spiegato che cos’è
l’autonomia fusionale autopoietica:
la danza-suono autopoietica dell’Universi-parte
che partecipa-osserva e consapevolizza se stesso.
La Sigmasofia Ecologica è un nuovo orientamento esistenziale e un nuovo modo di vivere l’Universi-parte, se stessi.