di dott.ssa Piera IADE
Partecipare alle escursioni E.Co.A. significa entrare in relazione con la forra, il torrente, la pietra, la cascata e con la propria emozionalità interiore fatta di paura, di bisogni di appiglio, della guida, dell’altro e della trasformazione istantanea di tutto ciò in assunzione personale, di presa per mano di se stessi.
Mi sono allenata duramente nel periodo precedente attraverso gli incontri di Danza autopoietica.
Il corpo allenato e c’è anche l’abitudine ad affrontare la difficoltà nell’ambito dell’immersione in natura.
C’è un lungo precorso da fare a piedi prima di arrivare alla Forra del Casco. I dirupi, la natura lussureggiante, le foglie gigantesche delle piante acquatiche mescolate alla vegetazione del bosco ricordano gli ombrelli degli gnomi delle fiabe. La zona è molto ricca d’acqua, ovunque. Dopo circa due ore di cammino si arriva all’inizio del torrente e lì ci si cambia…d’abito. Si lasciano i vestiti terrestri e s’indossa il sottomuta, la muta, i calzari, i guanti, l’elmetto, l’imbraco, e inizia il viaggio. Il corpo è contenuto dall’abito da essere acquatico e la percezione dell’esterno viene filtrata dal corpo divenuto interno di un involucro. La vestizione avviene all’inizio del corso del torrente, quello che ci porterà nella forra. Nello dà le indicazioni, le prime: tenere strette le chiusure della muta, dell’imbraco; poi, passa a controllare. Qualcuno è più controllato di qualcun altro. Le parole iniziano a diminuire. Personalmente, entro nel silenzio che mi aiuta a compattarmi, a non disperdere la forza, l’emozione, l’energia necessaria dopo.
Camminare con la muta sulle pietre del torrente non è facile. Gli scarponi ai piedi scivolano sulle rocce bagnate. La centralità è necessaria a non scivolare, a non cadere. I pensieri sono continuamente in azione nella mia testa. Penso al lavoro, alla mia vita, alle relazioni, ai problemi, alle soddisfazioni (…) ai film che passano nella mente. Facilmente, s’incontra l’intoppo (…). La disattenzione si rivela attraverso un colpo, una caduta: pare implacabile, ma è assolutamente necessaria la centralità compatta, quella che impedisce la dispersione.
Inoltrandosi nella forra, si entra nel respiro e nell’ascolto del suono bianco: i rumori sono attutiti dalla muta e dal casco. Si entra in una percezione differente. Anche i rumori interni diventano più bianchi.
La relazione con l’acqua è stretta, intensa, forte: non è buona, né cattiva, lei va per la sua strada e, per non farsi male, bisogna assolutamente amalgamarsi al suo percorso.
A volte, nella vita, fa anche male amalgamarsi; la comprensione dell’acqua non c’è, non è simpatetica. E, a volte, anche gli esseri umani non lo sono.
Ma è così: sotto alla cascata, non resta altro che adeguarsi.
Comunque, è limpida e fresca.
I salti, quelli alti, fanno paura: il legame con la corda è l’unico aggancio che mi protegge. Ma anche quello va gestito in modo corretto.
È la fusione, lo stato fusionale con la natura. Si può intuire che cosa s’intende, vivendolo. Significa sentire il proprio respiro, il battito del proprio cuore che entra nella roccia e ne fa parte. Intuizione del corpo unico? Forse. Ed è senz’altro un’emozione forte, perché si vive direttamente la bella frase che si è letta o ascoltata nei seminari di Sigmasofia. L’ho provato. Mi accorgo che, anche se non immediato, è più facile sentirlo con gli elementi naturali che con gli altri esseri umani! Lì, scattano le individualità, Con quello o con quella, non voglio essere tutt’uno!
Ma, nemmeno prima di scendere nella forra, o di correre nel vento o sotto la pioggia, non si decide di essere tutt’uno, sta di fatto che, prima o poi, succede che si viva quella dimensione (mi riferisco anche a tanti altri incontri con gli elementi naturali). È un po’ come se succedesse di incontrare, di rendersi conto di un dato di fatto, di un dato di realtà, a cui non si era mai fatto caso prima.
Con le persone, entrano in gioco le aspettative, i bisogni, i desideri: quando sono duramente frustrati, possono provocare enormi sofferenze. Nella relazione con la natura, i desideri non soddisfatti, i bisogni non appagati costringono all’adattamento: e sembra quasi che sia ovvio…cercare il modo di adattarsi.
Alla Forra del Casco, ad un certo punto, s’incontra un salto di 29 metri (il più alto del percorso), con relativa cascata ad abbondante portata d’acqua. Dopo il momento del distacco dal punto di partenza (in genere, il più difficile, perché significa separarsi, staccarsi dalla terra, dal punto di sicurezza, dal riferimento conosciuto), inizia la discesa a picco nel vuoto, penzoloni. Per un attimo, ci si lamenta:
- Perché sono qui?
- Chi me l’ha fatto fare?
Ma, intanto, sono lì, senza possibilità di scappare e la pietra, la parete rocciosa non mi viene incontro, per aiutarmi…C’è la rientranza, lo strapiombo, sono costretta a trovare la strategia per affrontare, per reagire e attivarmi, in modo che le mie possibilità si esprimano, facciano qualcosa e qualcosa faccio. Infatti, discendo, metto in atto le tecniche insegnate da Nello, e con difficoltà, piroetto nel vuoto, sbalzi e balzi, mi trovo al punto d’arrivo.
Con gli esseri umani, ci si augura che la situazione non diventi mai così rocciosa, che l’altro sporga una mano dalla rientranza, dal vuoto (…). Ma non sempre è così: l’altro può essere inamovibile, esattamente come la roccia della forra. Esattamente, come può succedere a qualche elemento della nostra psiche che, scomodo e duro, rimane là, anch’esso inamovibile.
Le possibilità di accerchiamento e di discesa possono essere le più disparate, e ognuno trova sicuramente le proprie. Io posso dire che discendere una forra, alla maniera autopoietica, ovvero seguendo le indicazioni della Sigmasofia, con la ricaduta nella forra interiore, è un metodo sicuramente produttivo e stimolante.